Giochi

lunedì 19 luglio 2010

Giulio

Monza, primo pomeriggio del 20 giugno 2001

Ogni giorno a quest'ora Giulio apriva la porta di casa. Raramente tale abitudine subiva variazioni. Il suo rientro rappresentava una certezza: poteva diluviare come in una foresta pluviale o il sole infiammare rabbiosamente le carrozzerie delle auto; le nubi potevano essere basse e pesanti come l'uggioso autunno londinese, oppure la neve adagiarsi morbida e lenta sulla città come lo zucchero a velo accoccolato sulle chiacchiere di carnevale. Giulio ogni giorno compariva sulla soglia di casa spettinato, col casco in mano e il giubbotto da motociclista già aperto sul davanti per guadagnare tempo. A volte era zuppo di pioggia, altre infreddolito, altre ancora accaldato come se fosse appena uscito da un bagno turco. Però era sempre lui invariabilmente.
Dopo pochi passi in casa, Giulio appoggiava le chiavi della moto nel vuota tasche e lasciava il moderno elmo sulla sedia dell'ingresso, spesso asciugandolo con una pezza. Tintinnio scoccato da incontri metallici seguito dal tonfo ovattato sulla seduta di legno, fruscio del cotone sulla fibra di carbonio.
Piccole azioni meccaniche, rumori consueti, profumi e odori familiari: tanti minuscoli dettagli che, messi assieme o pescati dalla memoria uno alla volta, compongono l'essenza di una presenza indispensabile, divenuta mancanza straziante di una persona che ora non è più.
Quando la consuetudine del rito quotidiano semplice ma costante cessa all'improvviso per una fatalità, lascia un vuoto paragonabile all'amputazione di un arto. La sensazione è quella: come se la vita diventasse monca. Dopo accade che sempre, in ogni istante della giornata, in ciascuna azione e persino in tutti i pensieri si faccia largo la sensazione tattile dell'assoluta mancanza di una parte di sé creduta essenziale eppure data per scontata. Chi mai si accorge della preziosità della mano mancina finché questa non viene a mancare? Fino a un attimo prima era al suo posto, pronta a funzionare a dovere ogni qual volta ve n'era la necessità, senza mai apparire in primo piano, eppure essenziale nella sua compresenza da attrice non protagonista. Eppure basta una piccola ferita, una storta, una slogatura per accorgersi che quella consuetudine data per scontata si trasforma in mancanza insostituibile. E non solo fisica, soprattutto psicologica. E Giulio non era l'arto sinistro, per Flora era ed è molto di più: è entrambe le mani, l'intero cuore e persino il centro propulsore delle sue idee. L'assenza del suo uomo le ha portato via arti, sentimenti e neuroni. Ora le resta quel poco che basta per proseguire una vita dignitosa e occuparsi di loro figlia. E sperare sempre e comunque che qualcosa accada per cambiare la sorte o almeno per colmare quell'abisso in cui si sente precipitata.

Nadia apparecchia la tavola sulla terrazza ombreggiata mentre Flora si adombra di ricordi. Fantastica che alle loro risa spensierate si possa aggiungere proprio in quel momento la calda presenza di Giulio. Forse lui avrebbe provato fitte acute di dolorosa gelosia notando il bel rapporto di amicizia instaurato di nuovo tra le ex compagne di liceo. Flora gli avrebbe spiegato che si tratta solo di un appiglio prezioso a cui si è aggrappata per non sprofondare nella solitudine disperata.
Conoscendolo, Flora sa che a lei avrebbe accordato piena fiducia, ma non a Nadia, dichiaratamente lesbica. Giulio ha sempre desiderato Flora tutta per sé: compagna, amica, amante senza interferenze esterne. Il suo desiderio per lei è stato talmente totalizzante da avergli impedito di avere altre donne. Non gli sono mancate le occasioni, bensì la volontà: Flora era il centro propulsore e accentratore dei suoi desideri. Mai alcuna sbandata, nessuna avventura extra coniugale. Una fedeltà non ricercata, ma semplicemente vissuta profondamente, al punto da sentirsi quasi imbarazzato durante le bevute di birra con i colleghi quando tutti raccontavano le proprie scappatelle mentre lui non aveva alcuna trasgressione da condividere.
Una volta Giulio partecipò a una festa di addio al celibato di un collega. Nel privèe si materializzò una strepitosa bionda fasciata in una tuta leopardata, con orecchie a punta ed evocativi stivali di vernice nera alti fin sopra al ginocchio. A ritmo di musica assordante la sexy gattona, con studiate movenze sinuose e ammalianti, cominciò una danza strusciandosi prima sul palo lucido, poi facendo le fusa con il pubblico maschile: a cavalcioni sopra uno, baciando un altro, sbottonando la camicia di un altro ancora. L'atmosfera surriscaldata da birra e super alcolici e la voglia di trasgressione trasformarono i più esagitati in irrefrenabili lupi bramosi di sesso. La ragazza ci sapeva fare: riusciva a dosare perfettamente la provocazione bloccando con fermezza gli atteggiamenti eccessivi.
Sotto lo sguardo vigile di un paio di buttafuori, la pantera salì sul tavolo e iniziò un rapido spogliarello salvando solo un minuscolo duepezzi e gli stivali. Si mise carponi e invitò il festeggiato a raggiungerla. Il giovane, ubriaco, si posizionò dietro di lei e simulò un amplesso tenendola ai fianchi. La ragazza sembrava gradire, così lui le tolse il reggiseno, lanciandolo agli amici come un trofeo di caccia. Il caldo spinse molti a mettersi a torso nudo e a roteare la camicia in aria. Cori da branchi famelici soverchiavano la musica già ad alto volume.
Giulio gustava la scena con divertente distacco, valutando i comportamenti dei colleghi con cui lavorava gomito a gomito. Constatava quanto il lato animalesco di un uomo soggiaccia sotto un sottile strato di apparente autocontrollo, pronto a esplodere in tutta la sua potente virilità non appena può togliere la maschera perbenista.
Alla fine giunse anche il suo turno: la sensuale felina gli si accomodò sulle ginocchia, porgendogli un piccolo fallo di gomma azzurro. Tra i presenti si levò un'ovazione e cominciò un martellante incitamento affinché il fortunato seguisse l'esplicito invito della ragazza. Nonostante la vampata di calore che gli fece grondare sudore dalla fronte, Giulio rifiutò con un sorriso imbarazzato, passando il testimone a qualcuno più audace di lui.
Al ritorno, raccontò a Flora l'esito della serata senza omettere alcun particolare. Alla precisa domanda negò di aver avuto un'erezione durante la stretta vicinanza con la provocatrice. Disse la pura verità.

"Care signore, sono qui davanti a voi!" avrebbe detto Giulio entrando dalla porta, mal celando l'imbarazzo. Flora e Nadia si sarebbero voltate accogliendolo con entusiasmo.
- Ma queste sono solo fantasie... - commenta Flora a voce alta, poi aggiunge: - Nadia, ho preparato un piatto di pasta fredda veloce, con mozzarelle di bufala freschissime, olive nere, pomodorini Pachino maturi e foglie di basilico innevate da pepe rosa... hai fame?
Nadia siede contenta. Flora rivede Giulio mentre annusa il basilico che adorava. Gli ricordava i profumi della campagna veneta che frequentava quand'era bambino, dove gli zii coltivavano ortaggi dal sapore unico, indimenticato.
- Sarà una pausa veloce - prosegue Flora - perché ho fretta.
- Come sempre... riassumiamo tutto.
Flora annuisce e inizia il racconto.
- Marianna De' Leyva, futura Signora di Monza, era figlia del conte don Martino De' Leyva e di donna Virginia Maria Marino, giovane vedova con cinque figli. Nel 1575 nacque Marianna che, dopo la morte della madre durante la peste del 1576, fu allevata da una zia affetta da grave mania religiosa. Don Martino si risposò in Spagna, mentre Marianna quindicenne entrò nel convento delle Umiliate Benedettine a Monza, dopo che il padre le aveva sottratto quasi tre quarti della cospicua eredità materna. Accanto al convento sorgeva la casa degli Osio, una famiglia di possidenti originaria del Bergamasco che, nonostante vantasse relazioni con l'aristocrazia lombarda, era anche famosa per le sue sopraffazioni. La vicinanza degli edifici favorì la tresca tra la monaca e Gian Paolo Osio.
Flora mangia rapidamente un paio di forchettate di pasta, senza quasi masticare: ha fretta di proseguire il racconto. La precede Nadia, che ha già metà piatto vuoto.
- Questa vicenda di amore e morte iniziò con un delitto. Gian Paolo, infatti, severamente rimproverato dalla monaca per una relazione sessuale con un'educanda, fu accusato dell'omicidio per vendetta di Giuseppe Molteno, agente dei de Leyva per l'amministrazione del feudo di Monza. La feudataria diede quindi ordine di arrestarlo.
Ora è il turno di Flora, che ha approfittato per vuotare il piatto.
- L'ordine di cattura fu revocato soltanto dopo l'intervento della superiora del convento che, cedendo alle pressioni della madre di Osio, impose a suor Virginia il provvedimento in nome dell'obbedienza. Nella primavera del 1598 Gian Paolo andò quindi al convento per ringraziare suor Virginia per l'atto di clemenza. Qui entrò in scena don Paolo Arrigone, curato della vicina chiesa di san Maurizio, che da tempo rivolgeva senza successo le sue attenzioni morbose alla potente monaca.
Mentre si alternano nel racconto, le amiche sono talmente affiatate da sembrare entrambe le ricercatrici.
- Questo prete - prosegue Flora - durante l'inizio della relazione scrisse per Osio lettere d'amore inviate alla donna. In una notte di giugno Virginia accettò di incontrare il giovane nel parlatorio del convento, alla presenza di altre due suore: Benedetta e Ottavia. Da quel momento Gian Paolo iniziò a inviarle doni e talismani magici, tanto che la monaca si convinse di essere vittima di un maleficio architettato dal parroco Arrigone. Ricorse persino a pratiche esorcistiche. Finché una notte di settembre, con la complicità di suor Benedetta e suor Ottavia, incontrò di nuovo Osio che la violentò. Non si videro per qualche tempo, poi gli incontri ripresero e la relazione durò ben nove anni. Nel convento le incursioni notturne di Gian Paolo vestito da monaca si alternarono a quelle di Virginia in casa Osio, aiutati dalla complicità di altre consorelle. I movimenti nel cuore della notte si complicarono col trascorrere del tempo. Osio intratteneva ogni tanto rapporti sessuali anche con suor Benedetta e suor Ottavia, mentre il prete Arrigone dedicava le sue turpi attenzioni a un'altra suora, Candida.
- Era un bordello, non un monastero! - esclama Nadia.
Le donne ridono e l'atmosfera torna completamente rilassata.
- Nel 1602 suor Virginia diede alla luce un bambino morto e due anni più tardi, nonostante i tentativi di abortire, partorì una bambina, chiamata Alma Francesca Margherita.
- Non è vera la leggenda della Monaca di Monza che gettava nel pozzo i bambini di Egidio? - domanda Nadia.
- No, anch'io da bambina avevo più volte sentito questa storia, ma è una menzogna popolare. La bambina sopravvisse e fu allevata dal padre, che la riconobbe legalmente come sua. Fu anche portata più volte in convento dalla madre, ma era tanto brutta che la monaca, vedendola, piangeva lacrime di sconforto.
Flora fa una smorfia. "È impossibile" pensa, "che una mamma possa provare tanto disgusto per la sua stessa bambina. Il pensiero corre ai capelli biondi di Dora, al suo sguardo infinitamente dolce e innocente, alle sue espressioni infantili che le inondano il cuore di tenerezza.
- Che successe? - domanda Nadia sbucciando una pesca matura.
- La situazione precipitò quando la giovane conversa Caterina, figlia di un contadino di Meda, litigò con suor Virginia. Era addetta al suo servizio e sapeva tante cose. Così, pochi giorni prima del capitolare del 1606, minacciò di riferire a monsignor Pietro Barca della curia milanese quanto parecchi ormai sapevano, dentro e fuori le mura del convento.
- Uhm... spiegati meglio. Cos'è un capitolare e chi era questo Barca?
- Nel corso del capitolare si sarebbe dovuta eleggere la nuova superiora, carica alla quale suor Virginia aspirava. Pietro Barca era atteso al monastero per quella circostanza.
- Così va meglio - commenta Nadia - quindi sarebbe arrivato in convento un alto prelato esterno al feudo... e quale occasione migliore per sputtanare la bella monaca? Quindi un ricatto bello e buono.
- Sì, ma suor Virginia non era stupida e corse ai ripari in anticipo. Caterina fu imprigionata con il consenso del confessore del convento dopo una scenata a una monaca di famiglia aristocratica. La notte tra il 28 e il 29 luglio la conversa ventitreenne fu uccisa da Osio con un piede di bicocca.
- Cos'è la bicocca? - domanda Nadia mentre finisce di sparecchiare.
- Era il pezzo di legno e ferro che costituiva l'asse centrale dell'arcolaio. L'omicidio avvenne alla presenza di cinque monache. Il cadavere fu prima occultato in un pollaio e, la notte seguente, trasportato in casa Osio, dove fu decapitato. La testa fu ritrovata solamente a processo iniziato in un pozzo nei pressi di Velate e sepolta nella proprietà di Gian Paolo.
- Porca miseria! Un assassino, cinque testimoni suore e la complicità della feudataria. Ma come hanno fatto a portare fuori dal convento il cadavere di Caterina? - domanda incredula Nadia. Ha iniziato a prendere appunti con la biro sul tovagliolo di carta.
Flora le sorride, sembra una giornalista all'opera. È meraviglioso vedere Nadia così coinvolta nella discussione.
- Avevano aperto una breccia nel muro per far credere che la conversa, nota per la sua scarsa vocazione, fosse fuggita.
- Ma le voci continuarono... - commenta Nadia preparando la caffettiera.
- Osio - prosegue Flora rimanendo seduta a tavola - temendo di essere stato visto mentre, con l'aiuto di suor Benedetta, trasportava il cadavere di Caterina in casa propria, diede ordine a un bravo di uccidere il fabbro Cesare Ferrari, che aveva contraffatto per lui le chiavi del convento. Pensa, pare ne avesse fatte cinquanta copie, perché spesso suor Virginia, dopo gli incontri con l'amante, in preda al rimorso le gettava nel pozzo!
- Un altro testimone, quindi, ma stavolta fatto fuori. Che altro successe?
- Il testimone più pericoloso per i due amanti restava lo speziale Rainerio Roncino, fornitore del convento, che aveva preparato svariati intrugli per far abortire suor Virginia. Osio ordinò di ucciderlo, ma l'archibugiata del bravo non raggiunse il bersaglio. Dopo l'attentato cominciarono le indagini da parte dell'autorità civile e don Pedro Enrìquez de Aáevedo conte de Fuentes, governatore spagnolo di Milano, fece arrestare e imprigionare Osio a Pavia durante il carnevale del 1607.
- A Pavia? Che ci faceva là, Osio?
- Pare fosse fuggito. Iniziarono quindi anche le indagini dell'autorità religiosa, intensificate dopo la fuga a ottobre dal carcere di Pavia di Gian Paolo che, ancora grazie alla complicità delle monache, riuscì finalmente a chiudere la bocca allo speziale. Con la scusa di un medicinale per suor Virginia Rainerio Roncino fu convinto ad aprire di notte la porta della sua bottega, cosicché il sicario poté sparargli: stavolta fu un colpo a bruciapelo. Ricercato, Osio si rifugiò nel convento, ma il mattino del 25 novembre suor Virginia fu arrestata dal vicario criminale della curia e trasferita a viva forza nel monastero milanese delle Benedettine di sant'Ulderico, dette monache del Bocchetto, dopo che aveva tentato di scagliarsi armata di spada contro il prelato e i suoi uomini.
- Che bel temperamento da virago! - esclama Nadia ridendo. Ha reclinato il capo da un lato e la cascata di ricci scuri le copre parte del petto pieno e sodo.
Flora fa l'occhiolino all'amica e riprende il racconto.
- Il 27 novembre iniziò l'istruttoria con l'interrogatorio delle monache del convento di santa Margherita da parte del vicario criminale Gerolamo Saracino.
- Quindi erano trascorsi quattro mesi dall'omicidio della conversa Caterina e ancora non era stata ritrovata la testa decapitata di Caterina... - commenta l'amica.
La ricercatrice annuisce: - Neppure il cadavere! Intanto iniziò l'interrogatorio dei primi testimoni. Il 29 novembre suor Benedetta e suor Ottavia furono convinte da Osio, uscito dal convento col loro aiuto dopo l'arresto di suor Virginia, a fuggire con lui. Ma la faccenda sfuggì letteralmente di mano.
Flora cambia tono. L'entusiasmo che fino a poco prima aveva arricchito l'enfasi del suo racconto, lascia ora spazio a una certa malinconia, quasi le dispiacesse che la vicenda avesse preso una brutta piega davvero irrecuperabile. Ripensa solo per un attimo allo straordinario incontro avuto con suor Virginia Maria nel convento di santa Margherita. Non aveva potuto vederla in volto, ma lo immaginava ancora bello, con uno sguardo intenso, fiero nonostante tutto, eppure duramente provato dalla tragedia che travolse la sua esistenza.
Riprende il racconto: - Durante la fuga Osio buttò suor Ottavia nel Lambro e cercò di finirla colpendola alla testa con il calcio dell'archibugio che, per la violenza dei colpi, si staccò dalla canna. La donna, che riportò gravissime ferite, per salvarsi si finse morta e poche ore dopo fu soccorsa da un contadino sulle rive del fiume. Ottavia fece appena in tempo a deporre prima di morire il 26 dicembre 1607.
- Mio Dio! - esclama stupita Nadia, che ancora non conosceva l'epilogo dei personaggi - ma era necessario quel massacro? E l'altra suora, fu uccisa anche lei?
- No, le andò meglio. Il 2 dicembre suor Benedetta fu ritrovata viva, anche se aveva una gamba fratturata. Giaceva in un pozzo vicino a Velate, dove era stata gettata due giorni prima dall'Osio che aveva cercato poi di finirla a colpi di pietra. Questo fu un altro imperdonabile errore. Pochi giorni dopo nello stesso pozzo le autorità civili impegnate nella caccia all'assassino ritrovarono il cranio della conversa.
- Manca un altro testimone chiave: il prete Paolo Arrigone. Lo arrestarono, no? - chiede Nadia servendo il caffè nero nelle ampie tazze colorate.
- Sì, il 7 dicembre per iniziativa di Teodoro Osio, fratello di Gian Paolo, probabilmente nella speranza di alleggerire la sua posizione. Il 13 dicembre furono ritrovati i resti della conversa nella proprietà di Monza degli Osio. Il 19 dicembre il senato di Milano ordinò la confisca dei beni della famiglia bergamasca. Fu anche una mossa per costringere Gian Paolo, che era latitante, a tornare nel Milanese. La proprietà vicina al convento fu messa al sacco dai soldati spagnoli e il 20 Gian Paolo scrisse al cardinale Federigo Borromeo, cercando di dare la colpa dell'accaduto alle due suore che aveva cercato di uccidere e ai sacerdoti che, in quegli anni, avevano avuto rapporti con il convento.
- Una serie impressionante di colpi di scena, mia cara, - commenta Nadia mescolando un cucchiaino raso di zucchero di canna nel caffè.
Flora vuota in un sorso la sua tazzina arancione.
- Il 22 dicembre iniziò l'interrogatorio della Signora di Monza.
- Il 22 dicembre? - domanda l'amica - Ma non l'avevano arrestata un mese prima? La macchina giudiziaria andava già così a rilento?
- Hai ragione, suor Virginia fu arrestata il 25 novembre. Pare che il ritardo fosse dovuto al suo atteggiamento: nei primi giorni di prigionia aveva tentato più volte il suicidio. E poi il cardinale Federigo Borromeo fu costretto a procedere con estrema cautela nei confronti di un membro di una potentissima famiglia aristocratica, pur essendo pungolato dalle autorità spagnole impegnate nella caccia a Gian Paolo.
Nadia annuisce: - Ora ci vuole un ammazzacaffè per far fronte a questa storia. Mentre racconti, Flora, preparo per tutti una bella coppa di gelato fragola, cocco e cioccolato.
Quando Nadia torna sul terrazzo, Flora riprende il racconto.
- Per evitare inquinamenti e pressioni Federigo Borromeo nominò un nuovo vicario criminale estraneo all'ambiente milanese. Scelse lo spoletino Mamurio Lancilotto. Poi, prima di concludere il processo contro la Signora di Monza, aspettò che fosse emessa la sentenza del tribunale civile contro Osio, per evitare incidenti con i De Leyva. La sentenza di condanna nei confronti del latitante e dei suoi complici arrivò il 25 febbraio 1608: Gian Paolo fu condannato alla pena della forca e alla confisca di tutti i suoi beni.
- Come si potevano confiscare all'epoca i beni di una persona? Non c'erano conti correnti bancari o cose simili... - domanda Nadia mentre lecca con passione una goccia di cioccolato scivolata sul manico lucente del cucchiaino d'acciaio.
- Erano molto più sbrigativi e teatrali - risponde Flora - la dimora monzese del condannato fu rasa al suolo e sull'area dove sorgeva l'estate successiva fu eretta una "colonna infame" a perpetua memoria dei misfatti lì consumati.
- Ho capito, - interrompe Nadia - una di quelle descritte da Alessandro Manzoni nel libro "La colonna infame".
- Sì. - risponde Flora.
- Ma ora non c'è più... - esclama Nadia ricordando le tante volte in cui è passata davanti a ciò che resta del convento a Monza, mentre raggiungeva il liceo.
- Infatti, - riprende Flora - fu poi rimossa cinque anni dopo, in seguito alle richieste delle monache di santa Margherita, della famiglia De Leyva e della stessa opinione pubblica, tutti contrari alla presenza screditante di quell'orribile simbolo di giustizia. Solamente nel 1629 il senato di Milano restituì l'area dove sorgeva la casa alla famiglia Osio.
- Durante l'interrogatorio la Monaca di Monza e le suore furono torturate?
- Certo. Il vicario criminale sottopose le imputate alla tortura dei "sibilli", che consisteva nello schiacciamento delle dita ed era un tipo di tortura di solito riservata alle donne. Lo scopo era che confermassero la precedente deposizione. Quindi, avvalendosi della consulenza di giuristi lombardi e romani, il vicario criminale Mamurio Lancilotto emise il 17 ottobre 1608 la sentenza. Suor Virginia fu condannata al carcere perpetuo da scontare murata in una piccola cella nella Casa delle convertite di santa Valeria a Milano, vicino a sant'Ambrogio, dove erano accolte e sottoposte a disciplina carceraria le prostitute pentite del Milanese.
- Che scotto, finire con le puttane... - commenta a voce alta Nadia. Poi si scusa. Non ama certe scurrilità nel linguaggio.
Flora riprende il filo del discorso: - Condanne simili da scontare nel monastero di santa Margherita furono comminate l'anno seguente, ovvero il 27 luglio 1609, contro le tre complici. Sai già che il prete Arrigone durante il processo negò ogni responsabilità. Però il 24 gennaio 1609 fu condannato a un triennio di remo sulle galere spagnole.
- Manca l'altro protagonista. Il bell'Osio, la fece franca?
- No. Pagò ogni suo debito con la giustizia terrena. Nell'inverno del 1609-1610 Gian Paolo rientrò segretamente a Milano e chiese asilo nella casa dell'amico conte Lodovico Taverna, fratello di un cardinale e altissimo funzionario del re di Spagna. Taverna, rinunciando al privilegio di asilo, decise di liberarsi dello scomodo ospite...
- Dimmi di Virginia, raccontami come fece a venir fuori dal convento per prostitute pentite!
Flora si volta verso l'amica sorridendo: - Suor Virginia fu graziata dal cardinale Borromeo e liberata, assieme alle due complici sopravvissute, il 25 settembre 1622. Erano trascorsi la bellezza di tredici anni di reclusione in una sordida cella di un metro e ottanta per tre.
- Vuoi dire che ne uscirono vive e sane di mente tutte e tre?
- Sane di mente non lo so, ma di certo vive. Da all'ora in poi la vita di suor Virginia si svolse all'ombra del cardinale, che, convinto del pentimento della monaca, nel 1626 le conferì addirittura l'incarico di confortare, per iscritto, con massime e precetti morali e religiosi, alcune monache in crisi, mentre approfondiva la propria cultura religiosa. Anzi, il cardinale lasciò una serie di appunti sulla vicenda di questa pecorella smarrita e ritrovata sulla via del Signore da utilizzare per una nuova edizione del suo trattato "Philagios". Dopo la morte del cardinale, avvenuta il 21 settembre 1631, la vicenda della Signora rientrò nell'oblio. Marianna De Leyva morì il 7 gennaio 1650 nel reclusorio di santa Valeria. Aveva settantacinque anni.

martedì 13 luglio 2010

Il desiderio di Amaranto

Milano, 20 giugno 2001

Un timido raggio di sole filtra dalle spesse coltri viola appese al bastone d'ottone imbrunito fissato sulla finestra della camera da letto. Il cono di luce taglia con precisione la semi oscurità in cui è immersa la stanza nonostante sia primo pomeriggio. Il pulviscolo danza soavemente al ritmo di una musica che può essere udita solo dagli spiriti. Vinicio Amaranto ha trascorso la notte senza chiudere occhio. Il sonno è svanito non appena ha cominciato a leggere gli appunti vergati sul taccuino rosso che ha sottratto a Flora Leth il giorno precedente. Non è fiero di sé per quel che ha fatto, ma lo scopo è stato raggiunto. In questo si sente molto machiavellico e sogghigna pensando alla ricercatrice ingannata col vecchio trucco dell'ipnosi. In fondo perché auto biasimarsi? Deve forse sentirsi in colpa perché è abile nello sfruttare le proprie competenze? Dovrebbe mutare atteggiamento solo perché il comune senso civile condannerebbe il suo modo di agire?
- Assolutamente no! Io sono ciò che sono! - esclama sicuro di sé mentre con un gesto deciso annienta il raggio solare facendo sormontare le due tende.
Poi si rimette supino sul letto singolo che accoglie generosamente il suo corpo bianco e stanco.
- In tanti anni quanti segreti sono riuscito a carpire a inconsapevoli pazienti che credevano di cadere in trance, sotto ipnosi, mentre io preferivo ricorrere alla ben più antica e sicura lettura degli Arcani? Difficile dirlo, forse migliaia! Comunque tutti tentativi andati a buon fine: nemmeno una volta mi è capitato che, a seduta conclusa, qualcuno avesse dubitato della mia pratica terapeutica.
Si stropiccia gli occhi grigi accerchiati dalla pelle grinzosa. È stanco, ma l'eccitazione delle nuove scoperte funziona come una pietra focaia di idee che ardono vivacemente.
- Fu solo l'invidia a spingere i miei colleghi a mettere in giro voci sul mio conto e presto il pettegolezzo ebbe il sopravvento. Nessun paziente, invece, si lamentò mai né delle mie diagnosi, né delle mie terapie!
- Vili e invidiosi! - esclama a voce alta serrando i pugni e rivolgendosi a immaginari interlocutori che lo spiano dal soffitto.
- A causa vostra sui giornali scrissero di me e la televisione mostrò a tutti il mio viso avvilito il giorno dell'arresto. Mi chiamarono cialtrone, mago da strapazzo dedito all'occulto...
Si copre gli occhi con i palmi aperti, quasi ad asciugare lacrime che la secchezza dei suoi occhi aridi di emozioni non potrebbero mai lasciar fuoriuscire.
- Quante offese quelle accuse ingiuste... quanto dolore mi provocarono... mi fu impossibile discolparmi: le voci dei pazienti soddisfatti disposti a mettere la faccia a mia difesa erano troppo fievoli rispetto al clamore dello scoop sbattuto in prima pagina e urlato a gran voce da giornalisti senza scrupoli. Fui costretto ad abbandonare la medicina ufficiale, radiato con onta senza potermi difendere. Al processo arrivai già colpevole, anche se poi fui assolto! Osteggiato da tutti, pochi giornali parlarono della mia assoluzione e in trafiletti che nessuno lesse perché erano piccoli come francobolli!
L'albino scopre lentamente il volto, tirando al massimo la pelle molle verso il mento, quasi volesse espellere i bulbi oculari.
- Non ebbi scelta! Non mi restò che dedicarmi completamente alla divinazione e a trovarmi un altro ruolo nella vita sociale. In ciò fui fortunato: in breve il lavoro di collezionista e mercante d'arte antica e moderna da passione divenne pratica remunerativa, o meglio un'abile copertura per celare le mie ricerche sempre più approfondite nel campo dell'occulto. E la mia vendetta non avrà limiti!
Come svuotato da un peso asfissiante, stende le gambe e incrocia le mani dietro la nuca.
- Sigmund Freud in qualche modo sarebbe stato persino fiero di me...
Ricorda quel che disse lo studioso svizzero Albert Monch durante un congresso a Berlino. Affermò che anche il padre della psicoanalisi abbandonò l'ipnosi nel trattamento dell'isteria. Vero è che l'ipnosi ai tempi di Freud era ben diversa da quella moderna, ma tant'è. Per prima cosa, Monch disse che per il medico austriaco il richiamo alla mente di ricordi traumatici nello stato di coscienza ipnotico alterato portava sì qualche sollievo nella sintomatologia, ma non sembrava favorire la capacità del paziente di padroneggiare e risolvere il trauma. Inoltre pare che a Freud non piacesse l'ipnosi perché la considerava una tecnica attraverso cui il terapeuta assume una posizione potente e influente rispetto al paziente, mentre il medico austriaco preferiva utilizzare la tecnica della libera associazione, a suo dire meno invasiva. Infine, il professor Monch concluse l'intervento al congresso dicendo che le pazienti isteriche avevano la tendenza ad "attaccarsi" al psicoanalista, per cui l'ipnosi rinforza lo sviluppo di un attaccamento sessualizzato e dipendente della paziente nei confronti del terapeuta.
- A me invece l'attaccamento sessualizzato interessa eccome! - scoppia in una risata compiaciuta, mentre ripensa per un attimo alle donne di tutte le età disposte a ogni follia amorosa e a pagare qualunque prezzo pur di ottenere un amplesso dal professor Vinicio Amaranto. Poi torna riflessivo.
- Anche per me l'ipnosi non è una terapia esatta, mentre l'esoterismo è una pratica che ho talmente sviluppato da sentirla parte integrante di me. E più mi dedico a essa, più sento crescere il mio potere e vengo attratto vorticosamente nella spirale dei riti magici.
Socchiude gli occhi e si abbandona ai ricordi del giorno precedente. In verità Flora non è stato un soggetto facile. Leggerle i Tarocchi ha generato parecchi imprevisti: sembrava quasi che la giovane fosse refrattaria ai suoi poteri occulti sperimentati in anni di ricerche in Europa e Medio Oriente. Era stato necessario un impiego di energie incredibili per riuscire a tenere testa alla ritrosia della donna, che pareva conoscere trucchi ben più potenti dei suoi. Sembrava quasi che ella riuscisse a sfuggire alla forza della sua persuasione stando seduta immobilizzata a osservarlo mentre scopriva una per una le Lame.
Nonostante le difficoltà incontrate, Madama Fortuna si era affacciata al balcone del suo giardino a rischio di desertificazione trasformandolo in florido parco botanico. Così, oltre a impossessarsi del prezioso taccuino, alla fine della lettura Amaranto era riuscito a carpirle un segreto eccezionale che non avrebbe mai immaginato.
- Una vergognosa tresca con un prete avvenuta una quindicina d'anni fa... una fantastica storia morbosa da usare come arma di riserva! - commenta ad alta voce.
L'albino sente il rumore della maniglia della porta d'ottone che si apre. Giuditta De Marco fa capolino avvolta in una vestaglia di seta turchese che le fascia le belle forme tornite. I capelli sono perfettamente ordinati e il trucco sapiente valorizza il volto dai lineamenti sofisticati. La donna guarda il marito con un sorriso incoronato da denti bianchissimi e lo sguardo dolce lascia trapelare il suo innamoramento come se fosse ancora la liceale di tanti anni prima fuggita di casa col suo maturo psichiatra.
- Maestro, posso entrare?
I coniugi hanno sempre dormito in camere separate da un lungo corridoio. Amaranto predilige lo studio occulto notturno, la lettura prolungata nel cuore della notte quando gli odiosi raggi di sole sono scomparsi per lasciare posto alla meraviglia infinita delle tenebre nero profondo. Invece Giuditta adora dormire a lungo, fino al mattino tardi, spesso fino al pomeriggio, per risvegliarsi perfettamente riposata e con la pelle fresca e tirata, senza occhiaie o antiestetici occhi gonfi.
- Maestro, ho fatto un brutto sogno e ho bisogno di un caldo abbraccio.
Senza attendere la risposta, la donna lascia scivolare la vestaglia a terra restando velata da una sottoveste trasparente. Amaranto ammira le nudità velate di quella dea terrena. Giuditta avanza lentamente fino a scostare le lenzuola immacolate del letto a una piazza. Si infila accanto all'uomo che si volta sul fianco destro per lasciarle più spazio. Le braccia bianche e flosce di Amaranto cingono le spalle lisce e delicate della moglie, che appoggia la fronte sul petto glabro del marito, iniziando a baciarlo delicatamente.
L'albino sa benissimo quale sia il tipo di abbraccio che la moglie vorrebbe da lui, ma il suo stato di impotenza non gli permette da quasi due anni di soddisfare i desideri della bella consorte.
Ha tentato ogni rimedio scientifico e occulto: ha provato coi medicinali, la psicanalisi, la neurologia e la chirurgia. Persino il ricorso a pratiche magiche e filtri antichi sono stati un totale fallimento. Nulla ha dato i risultati sperati, ma Giuditta è rimasta accanto a lui, senza manifestare la minima intenzione di volerlo lasciare o tradire con un uomo più maschio.
La totale fedeltà fisica e spirituale della moglie non fa altro che acuire in Amaranto il dolore insopportabile di non poterla amare e soddisfare come merita. Una creatura splendida e raffinata come lei è la preda ambita e ideale di decine di scaltri pretendenti. Ricca, colta, magnifica e sessualmente insoddisfatta: basterebbe un soffio lieve per far fluttuare nell'aria una piuma tanto leggera. È forse solo il sentimento dell'amore che mantiene, per ora, la piuma ancorata a terra. Amore sì, alimentato dal potente legame sancito con un patto diabolico.
A gennaio la situazione di stallo però ha subito una svolta: il collezionista è riuscito a impossessarsi e studiare un antico manoscritto miniato medievale, recuperato dopo mesi di ricerca ad Alessandria d'Egitto. Nel tomo si parla di un rimedio che potrebbe risolvere definitivamente l'impotenza sessuale.
Da allora tutti i suoi sforzi intellettivi ed economici sono volti alla scoperta e al recupero di questo antico rimedio, al punto da rischiare di diventare ossessivo. Deve farcela, Giuditta deve restare sua.
- Principessa, ti prometto che un giorno ti farò nuovamente sentire la mia femmina - le sussurra lievemente all'orecchio accarezzandole la schiena.
- Lo so, Maestro, ne sono certa. - risponde a occhi chiusi, assecondando i movimenti della lunga carezza inarcando all'indietro il bacino.
- Cosa stai studiando oggi?
Il marito chiude il taccuino rosso e lo ripone nel cassetto del comodino: - La storia della Monaca di Monza.
- Mi ricordo di quella sventurata narrata nei Promessi Sposi. Lei finì murata viva, giusto?
Giuditta pronuncia la erre con un lento strusciamento della punta della lingua. Amaranto adora questa sua peculiarità: anni prima le dedicò un poema in cui la "erre" imperava, ripetuta in cinquemila vocaboli. Ogni sera lei leggeva a voce alta qualche pagina e lui la ripagava consorte profonde penetrazioni culminanti in orgasmi sublimi. "I bei tempi andati", pensa.
- Non esattamente, Principessa, ma la storia è molto intrigante.
- Perché ti interessa? - la donna inizia a leccargli la pelle grinzosa del collo. Amaranto chiude gli occhi grigi e fa correre la propria mano fino alla piega delle natiche della moglie, che si contorce alla ricerca del piacere che lui non gli può più dare.
- Cerco il segreto della nostra felicità, Principessa.
"L'amuleto", pensa l'uomo mentre la moglie gli sbottona la camicia del pigiama senza smettere di assaggiare lembi della pelle. Lui allarga le braccia e si abbandona alle sottili sensazioni piacevoli.
In pochi mesi di accanita ricerca ha trovato molte prove a suffragio del potere degli amuleti magnetici. Nel Cinquecento e Seicento in Romagna le pratiche per influenzare la vita amorosa erano molte. Per ottenere l’amore di qualcuno veniva utilizzata una calamita battezzata o si usavano le fave raccolte durante la notte di san Giovanni. Amaranto non credeva certo a legumi magici e nemmeno ad amuleti miracolosi. Però il manoscritto ne descriveva uno in particolare, che veniva tramandato di generazione in generazione e del quale era stata persa ogni traccia a Monza, agli inizi del Seicento.
Tra i documenti processuali risparmiati dalla distruzione Amaranto aveva trovato che un ventisettenne di Carpi, tale Francesco Cabassi, nel 1620 finì davanti al tribunale dell'Inquisizione perché secondo il denunciante si era procurato della "calamita battezzata" - ovvero un pezzo di magnetite - e di averla bagnata con dell'acqua santa allo scopo di attirare l'amore delle donne, così come la calamita attira il ferro. Torturato, confessò moltissime cose relative alla sfera magica e stregonesca. Fu condannato alla prigione per sei mesi e alle solite penitenze salutari come la recita di salmi e rosari e digiuni.
Ricercando ancora l'albino consultò poi gli atti del processo contro Anastasia da Cottigliano, Cutigliano in Garfagnana, detta la Frappona, processata a Modena tra l'8 giugno 1517 e il 28 ottobre 1519. Numerosi furono i testimoni ascoltati. Tra gli altri comparve alla presenza dell'inquisitore Eleonora Bartolomeo Spina, moglie di Pietro di Mantova. Eleonora conosceva bene la Frappona perché l'aveva ospitata in casa per un anno. Così testimoniò che la notte si recavano da lei molti uomini e donne per farsi insegnare sortilegi d'amore, e la Frappona li accontentava in cambio di denaro. Disse anche che una volta l'aveva vista inginocchiata nella sua camera: era completamente nuda, coi capelli sciolti sulle spalle e una candela benedetta accesa davanti all'immagine del crocifisso. Forse pregava: ma la teste affermò di non aver capito le parole, ma sapeva che fosse un rituale per conoscere eventi futuri. Aggiunse di averla vista altre volte pregare nuda sopra il tetto.
Non solo: alla teste Anastasia aveva insegnato un incantesimo per riconquistare l'amore del marito. Doveva andare in tre farmacie e comprare in ognuna dell'argento vivo, ovvero del mercurio, nel nome del gran diavolo e poi riporlo in un luogo dove il marito fosse solito passare. La Frappona insegnò poi a Eleonora, per lo stesso motivo, di prendere una calamita bianca, battezzarla con acqua benedetta nel nome del padre e del figlio e dello spirito santo, e tenerla stretta nella mano sinistra durante la messa, senza dire alcuna orazione santa. La calamita doveva poi essere collocata sotto l'altare e restarvi per il tempo di tre messe, in seguito doveva essere posta sopra il marito recitando: "Tu sei ben venuto faccia di Dio, parola papata e segno di Salomone". In tal modo il potere naturale della calamita, quello di attrarre, sarebbe stato attivato e moltiplicato da rituali finalizzati a catturare il potere che emanava dal sacro, visto come serbatoio di potenza sovrumana.
Per queste e altre accuse suffragate da nuovi testimoni, la Frappona fu condannata all'esilio dalla città per dieci anni.
Amaranto cercò ancora prove del potere della calamita battezzata. Tra le carte di un processo inquisitorio del 1590, nell'elenco degli oggetti trovati in casa della presunta maga, c'era anche una calamita, che la donna sosteneva di utilizzare per curare le piaghe alle gambe. Gli inquisitori quindi chiamarono a testimoniare un esperto in metalli: l'orefice del quartiere, il quale disse che la calamita veniva usata per staccare i metalli dall'oro.
A conferma del potere degli amuleti magnetici battezzati l'albino consultò anche un prezioso testo pubblicato a Parma nel 1628 e intitolato: "Breve informazione del modo di trattare le cause del Santo Officio per i molto reverendi Vicarii della Santa Inquisizione istituiti nelle diocesi di Parma e di Borgo S. Donino". In un periodo appena successivo alla vicenda della condanna di suor Virginia De' Leyva e Gian Paolo Osio, nel testo è scritto che, per il Santo Tribunale, la matrice “diabolica” dell’eresia è unica: diversa sunt nomina, sed una porfidia.
All'epoca una complessa casistica regolava il grado di pericolosità e coinvolgimento nelle varie eresie. Erano da considerarsi eretici “Tutti quelli che dicono, insegnano, predicano o scrivono contro la sacra Scrittura, contro gli articoli della Santa Fede, contro i Santissimi Sacramenti e riti, ovvero uso d’essi; contro i decreti dei Santi Concilii e determinazioni fatte dai Sommi Pontefici; contro la suprema autorità del sommo Pontefice; contro le tradizioni apostoliche; contro il Purgatorio e le indulgenze; quelli che rinnegano la Santa Fede facendosi turchi o ebrei o d’altre sette e lodano le loro osservanze e vivono conforme ad esse; quelli che dicono che ognuno si salva nella sua fede…”.
A questi si aggiungevano quelli sospettati: “Quelli che dicono prepositioni, le quali offendono gli audienti e non le dichiarano; quelli che se non dicono parole, fanno fatti ereticali, come abusare i Santissimi Sacramenti e in particolare l’Hostia consacrata e il Santo Battesimo, battezzando cose inanimate come calamita, carta vergine, fave, candele altri simili; quelli che abusano cose sacramentali, come Oglio santo, Cresima, Parole della Consacratione, Acqua benedetta, candele benedette; quelli che feriscono e percuotono immagini sacre; quelli che scrivono, tengono, leggono o danno ad altri da leggere libri proibiti nell’Indice o negli altri Nostri editti particolari; quelli che notabilmente si allontanano dal vivere comune dei Cattolici come il non confessarsi e comunicarsi una volta l’anno, in mangiare cibi proibiti senza necessità, nei giorni determinati dalla Santa Chiesa e simili”.
Ancora una volta Amaranto trovò l'accenno alla calamita battezzata.
Se solo riuscisse a procurarsene una il flaccido membro che giace spento tra le sue cosce si animerebbe di colpo e potrebbe insinuarsi come un dardo infuocato nelle membra appena schiuse della sua incantevole moglie. Ma non basta trovare uno dei tanti amuleti fasulli che i suoi conoscenti collezionisti gli hanno finora propinato. Grazie all'incontro forse non casuale con quel dannato di Alfonso Della Porta ha avuto conferma che almeno una calamita, forse la più potente, esiste tuttora ed è possibile riuscire a recuperarla.

giovedì 24 giugno 2010

Il prete Paolo Arrigone

Monza, 20 giugno 2001

Flora è infinitamente a disagio ogni volta che torna al capezzale di Giulio. A disagio con lui e con se stessa, impotente e inutile piccola strega incapace di ogni sortilegio. Mela bacata di un albero maestoso di frutti rossi e maturi, figli di un ramo spezzato che le ha instillato solo una piccola dose di linfa vitale. Superfluo bocciolo mai sbocciato, capace solo di pensare ma poco di agire. Tante fantasie, infiniti sogni, un'unica realtà: una dolce, la presenza di sua figlia, e una amara come fiele, il suo uomo diventato un cadavere vivente.
Davanti al polmone d'acciaio si sente come la protagonista di un incubo che scopre di essere in mezzo alla folla completamente nuda e tutti cominciano ad additarla e a ridere di lei. Eppure non riesce a fare a meno di passare in ospedale a vederlo così ridotto, anche se ogni volta una sensazione di sconforto immensa la ingloba fagocitandola e rendendola impotente.
Tra poco lascerà la sala di rianimazione per tornare a casa e ributtarsi nel lavoro. Per ora è in piedi, abbracciata da un camice azzurro legato dietro la schiena in tre punti, immersa in una stanza senza suppellettili né decorazioni, illuminata dalla stessa luce artificiale giorno e notte, disturbata in continuazione dal medesimo ronzio di macchinari che monitorano lo stato del suo compagno.
Flora non ha giorni fissi in cui passa a vederlo: semplicemente quella mattina ha sentito il bisogno di stabilire un contatto almeno visivo con lui. L'unico che questa realtà le consenta. Per il resto, può solo accontentarsi dei ricordi e viverlo almeno nei sogni, dove spesso si incontrano, parlano come se nulla fosse. Incontri onirici che al risveglio si dilavano dai suoi sensi, lasciandole il sapore amaro della sconfitta e della disillusione.
Adesso le resta solo la possibilità di poterlo guardare, anche se si tratta di un percorso sensoriale univoco. Giulio ha gli occhi semi aperti ma non manifesta alcun segnale di vita: né un battito di palpebra, né un fremito, neppure un movimento dell'angolo della bocca. Che lei ci sia o no, nulla cambia. Il suo battito cardiaco è basso ma costante, il respiro è indotto, la vita cerebrale inesistente. Neppure il dolore per le piaghe da decubito che scarnificano il suo corpo sembra interferire con lo stato di apparente morte.
Prima di andarsene lo osserva ancora un momento: "Eccolo lì pallido, col volto scavato e gli zigomi prominenti. E quei capelli pettinati tutti da una parte come un ometto di altri tempi proprio lo imbruttiscono" pensa.
È così profondamente diverso dall'uomo meraviglioso con cui divideva i momenti liberi delle sue intense giornate.
"Dov'è finito il tuo ciuffo di capelli perennemente spettinati da motociclista? E i tuoi occhi verdi da gatto selvatico? Quanto saresti felice di vedere Dora, almeno per un istante... sarà banale, ma è così bella!"
Pensarlo com'era da vivo e vivente è peggio di sopportare una dolorosa catena legata stretta al collo e unita alle caviglie all'altra estremità. Vederlo immobilizzato e trasfigurato è la peggior tortura cui sia mai stata sottoposta nel corso dei secoli.
"Se tutto ciò è stato disegnato a tavolino da qualcuno per colpirmi nell'intimo... ecco, questa è la strada giusta per indebolirmi, ma non per distruggermi. Ma se quel qualcuno decidesse ora di colpirmi attraverso Dora, sarei capace di uccidere a mani nude per difendere mia figlia e sarei pronta a giustiziare anche chi ha ridotto Giulio in questo stato".
Squilla il suo cellulare nella borsetta. Ha dimenticato di spegnerlo: è severamente vietato tenerlo attivo nel reparto di rianimazione intensiva. Lo cerca frettolosamente nella borsetta sulla sedia. È un numero sconosciuto.
- Pazienza, richiamerai.
Flora si volta e saluta il suo compagno imprigionato nella capsula del tempo, al quale ha mentalmente raccontato tutte le vicende accadute in quegli ultimi giorni.
- Amore un abbraccio... vorrei solamente un abbraccio amore mio. Anche se in tutta sincerità mi accontenterei anche di un tuo solo sguardo.
Un violento senso di colpa assale Flora: le sembra di stare meglio, ma la febbre non accenna a scomparire del tutto. Gli svenimenti dei giorni precedenti la rendono ansiosa come se sentisse una sciarpa di seta legata troppo stretta alla gola.
Lascia la stanza asettica. In corridoio toglie il camice, le sovrascarpe, la cuffietta, i guanti di lattice e la mascherina. Getta tutto nell'apposito raccoglitore di rifiuti. È fondamentale portare all'interno della camera il minor numero possibile di germi e batteri per evitare forme d'infezione che potrebbero essere letali per la vita di Giulio, già così minata dallo stato vegetativo.


*****

Flora è tornata a casa, nel suo rifugio preferito. È seduta alla scrivania bianca del suo studio ricavato in una stanza dell'abitazione e sta rileggendo ancora una volta gli atti del processo a suor Virginia, Signora di Monza. Avrebbe voglia di tornare nel chiostro di san Maurizio con la sottile speranza di incontrare ancora Marianna. Non ha però preso accordi con suor Angela Barni. Teme di insospettirla: è meglio aspettare qualche giorno prima di ripresentarsi al convento.
Non è sola: Nadia è sdraiata sulla chaise longue di cavallino disegnata da Le Corbusier sistemata poco distante. Le dedicherà la giornata perché è preoccupata per la sua salute. Per raggiungerla a Monza ha dovuto delegare un po' di lavoro e spostare un appuntamento a Firenze per un sopralluogo in un'antica chiesa. Il suo problema principale è stato però giustificarsi con Grazia, gelosa del suo legame con Flora.
"Non hai nulla da temere" le ha detto prima di uscire di casa, "Flora sta poco bene e ha tanto lavoro da sbrigare. Le dò una mano... e lo sai che lei nemmeno mi piace!".
Grazia l'aveva guardata di traverso prima di prendere la pochette rosa e lasciare il loft.
Mentre sorseggia tè tiepido arricchito giusto da un pizzico di mandragora, Flora cerca di schiarirsi le idee. Ha una gran smania di procedere nella ricerca da quando il suo prezioso taccuino rosso è stato sottratto da Vinicio Amaranto.
- Non ho tempo da perdere, - commenta d'un tratto a voce alta - devo capire che cosa l'albino cerca e trovarlo prima di lui. Dovrei scoprire chi ha commissionato la ricerca e incontrarlo direttamente. Occhio per occhio, dente per dente...
- Sei ancora convinta che il collezionista abbia messo in piedi il trucco della lettura dei Tarocchi mascherata da seduta di ipnosi?
- Più o meno sì, perché tecnicamente ha commesso un errore fatale facendosi scoprire quando ho individuato la carta sotto la sua scrivania.
- Cosa intendi con "tecnicamente"?
- Che non lo facevo così ingenuo... insomma, a tutti gli effetti si è comportato da gran stregone. Le raffigurazioni delle carte che mutavano aspetto, lui in grado di darmi l'illusione di trasfigurarsi nel prete per darmi conferma di aver scoperto il mio passato di abusi... tutto così magistrale al punto che mi sono rivista adolescente! E poi gli sfugge una prova proprio sotto al naso!
- Magari è tutto calcolato. Forse quella carta l'ha gettata lì lui stesso per confonderti ancora di più.
- Temo di sì. Certamente è un illusionista potente. Potrebbe avermi ipnotizzato per poi farmi bere qualche sostanza allucinogena.
- Beh, questa ipotesi non mi stupisce se detta da una che sorseggia estratto di mandragora come fosse camomilla... - Nadia ride, ma Flora è pensierosa.
- Sono pronta a scavalcarlo, ma non sono i soldi che mi spingono al colpo di mano.
- Lo so. - Nadia si volta a pancia in su e fissa il soffitto bianco.
- Purtroppo ho poche tracce per capire chi sia il committente... o la committente, perché per quanto ne so potrebbe anche essere una donna. L'unica strada da percorrere è rileggere gli elementi trovati finora e capire se nella vicenda che ha intrecciato il destino di Marianna De' Leyva a quello di Gian Paolo Osio vi sia qualcosa di appetibile, al di là della loro relazione scabrosa.
- Tipo? - domanda Nadia.
- Beni materiali come oggetti preziosi, o anche le proprietà requisite a Osio in seguito alla condanna. Penso anche all'eredità spezzata di suor Virginia o di quelle delle famiglie delle suore coinvolte nel processo, che probabilmente persero tutto. Funzionava così: la lunga mano della Santa Inquisizione, una volta emessa la condanna, incamerava tutti i beni materiali.
- Le strade da seguire sono tante. Da che parte cominciamo?
- Confido in un colpo di fortuna e nel mio fiuto, che poi spesso sono la stessa cosa!
- Uf, allora avremo un sacco di lavoro... versa un bicchiere concentrato di mandragora anche a me! - sdrammatizza la mora.
- Sono preoccupata che sul taccuino ora nelle mani di Amaranto vi siano scritti elementi fondamentali per ritrovare quel "qualcosa" e che l'albino sia adesso in grado di procedere da solo e battermi in velocità.
- Forse la posta in gioco questa volta è molto alta e il collezionista non vuole dividere le fette della torta sostanziosa con te.
- Forse è così, o forse non cerca denaro ma qualcosa di diverso.
- Di magico?
- Sì, di potentemente magico.
- Allora dobbiamo partire da ciò che abbiamo in mano e da qui comportarci come investigatrici della storia.
- Basta che non veniamo risucchiate in qualche gorgo senza fine generato da streghe malefiche... - aggiunge scherzosamente Nadia.
- Non scherzare, è una faccenda di primaria importanza.
Flora sfoglia gli appunti raccolti in una voluminosa cartellina color porpora. Sono fogli scritti a mano, fotocopie di libri, schizzi di ritratti immaginari disegnati da lei. Nonostante sia una nuova giornata afosa, indossa una maglietta a maniche lunghe. Le sembra di sentire spifferi d'aria fredda colpirla alla schiena come minuscoli fendenti scoccati da un esercito di elfi invisibili.
- Ecco qui, - esclama appena trova un foglio segnato con un post-it - leggendo gli atti del processo sono stata colpita da uno dei principali personaggi coinvolti: il parroco della chiesa di san Maurizio, che sorgeva vicino al convento.
- Bene Flora, raccontami chi era costui.
- Questo prete Paolo Arrigone è certamente il peggior personaggio, il più subdolo di tutta la vicenda.
- Com'era?
Flora sospira e si distrae, cercando di immaginare come potesse essere fisicamente quell'uomo. Sicuramente era brutto, basso e grasso, pensa, completamente diverso da don Michele Scaraffi, l'orco che le rubò quasi due anni di vita, ricordi e sensazioni. Forse però aveva un crocifisso simile, rosso sangue. Impossibile, pensa, don Michele ne portava uno appeso al collo che aveva l'estremità in basso acuminata come una punta di coltello. Si era chiesta mille volte dove se lo fosse procurato. Magari se l'era fatto modificare da qualcuno, oppure aveva fatto il lavoro da solo. Lucido e affilato come un bisturi, avrebbe potuto squarciare la carne in profondità. Quante minacce aveva subito con quella punta terribile tenuta di fronte a un occhio, oppure puntata alla gola. Impossibile dimenticare l'orrore di tanta paura provata.
Flora deglutisce rumorosamente e riprende la consultazione degli appunti.
- Nella relazione di suor Virginia con Gian Paolo il prete Arrigone giocò un ruolo di primo piano. Amico e confidente di Osio, fu il vero autore di tutte le lettere d’amore che quest’ultimo inviò a suor Virginia.
- Una specie di Cyrano de Bergerac?
- Sì, ma diabolico perché non era spinto da amore, bensì da lascivia.
- Vai avanti - la invita curiosa Nadia.
- Era suo il "Graffio", il libro che trattava di casi di coscienza e di penitenza, grazie al quale, sostenendo che “qual libro conteneva… che non era scomunica a lui l’entrare nel monastero ma bene era la scomunica alla monaca all’uscire dal monastero”, Osio convinse suor Virginia a lasciarlo entrare nelle sue stanze.
- Praticamente quel prete suggerì a Osio di citare un libro per convincere la Monaca di Monza ad aprirgli le porte del convento di clausura?
Flora annuisce: - E le regalò una copia. Rarissima.
- Cosa ancora più interessante è che fu sempre Arrigone che, compiendo una pratica magica, “battezzò” la calamita con cui Osio cercò di “legare a sé” suor Virginia. Quell'atto fu ritenuto al limite dell’eresia, al punto che in fase giudiziaria implicò l’intervento del Sacro Uffizio, ovvero dell'Inquisizione.
- Non capisco... - si interroga Nadia.
- Pur essendo parroco un sacerdote, non possedeva alcun senso morale. Non si fece quindi scrupoli nel tentare alcune monache del monastero. Non essendovi riuscito con suor Virginia, intrecciò una relazione definita "impudica" con suor Candida Colomba. Visse con una domestica che fu anche sua amante e, come se non bastasse, insidiò varie fanciulle in confessione.
Nadia è esterrefatta: - Hai documenti che testimoniano questo comportamento del prete?
- Sì, a documentare questa pratica abietta esiste una lettera semi ufficiale, scrittagli proprio da suor Virginia, nella quale lei lo accusò e gli rinfacciò tutte le nefandezze da lui compiute, preannunciandogli il giusto castigo che lei, in qualità di Feudataria, appoggiata anche dalla sua potente famiglia, gli avrebbe fatto presto giungere, ponendo così fine alla sua vita scellerata.
- A quando risale la lettera?
- Era l'inizio del 1604 quando suor Virginia, in qualità di Vicaria, scrisse all’Arrigone per farlo desistere dalla tresca amorosa che aveva intrapreso con suor Candida, dopo che quest’ultima le aveva confessato quanto successo nell’ultimo incontro avuto col prete. Suor Virginia era già incinta per la seconda volta. Nonostante ciò si dichiarò “casta e pura”, mostrando non solo di sentirsi al sicuro da ogni possibile accusa in quanto appartenente alla potente famiglia De Leyva, ma anche una sicurezza psicologica incredibile.
- Hai detto seconda gravidanza? - chiede Nadia spalancando gli occhi e sedendosi sulla chaise longue.


*****


Flora non sta più ascoltando le parole di Nadia: è distratta dai ricordi. La figura di questo parroco tanto nefasta per suor Virginia e le altre monache le riporta ancora inevitabilmente alla memoria il "suo" prete, che amava osservarla in classe durante le ore di greco. Flora-alunna restava al proprio posto, senza mai guardarlo in faccia, manifestando aria annoiata. In realtà il suo cuore non smetteva di battere a un ritmo convulso, ma non voleva che l'uomo se ne accorgesse. Se solo avesse potuto, sarebbe corsa via da quella classe, fuggita dalla scuola, scappata lontano da quel posto da terribile. Ma non poteva, era troppo vulnerabile senza l'appoggio dei suoi genitori che non erano più. Cercava almeno di evitare il suo sguardo, che le pareva sempre tentare di strapparle i vestiti di dosso con la sola forza del pensiero. Che uomo orribile ma potente: ogni frase pronunciata dal sacerdote le sembrava detta per attirare la sua attenzione, per tenerla sotto pressione costante. Flora si sentiva in suo potere e temeva che sarebbe sempre stato così, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Si sentiva come un topo da esperimenti chiuso in una gabbia trasparente, scrutato in ogni istante dall'occhio attento dello scienziato senza scrupoli.
Quando don Michele cominciò a farle male seriamente, il giorno seguente Flora arrivava a scuola con una nuova medicazione al braccio o un livido al volto. Ogni volta raccontava alle compagne una scusa diversa per giustificarsi. Di solito dava colpa alla propria sbadataggine, ma le più maliziose spettegolavano che avesse un tutore-padrone che abusasse di lei, oppure che si ferisse da sola apposta per attirare l'attenzione su di sé. In ogni caso, Flora si sentiva sempre più sola ed estromessa dal gruppo: un disastro a quell'età per una ragazza vittima di plagio.
Invece a Flora ogni nuova scusa raccontata alle amiche serviva per giustificare a se stessa quella situazione terribile, che la stritolava sempre più nelle spire asfissianti di un serpente costrittore. Sapeva di vivere una terribile vicenda da cui non riusciva a uscire, ma era convinta che avrebbe avuto via di scampo solamente se si fosse opposta con determinazione. Nel tempo i tentativi non mancarono, non era una codarda. Tentò svariate strategie, anche se tutte condite da un pizzico di innocenza adolescenziale.
Aveva provato a evitare gli inviti insistenti di quell'uomo: cercava di sgusciare fuori da scuola come un passerotto che cerca via di scampo dalle zampe serrate di un felino a caccia. Ogni volta che riusciva a stargli a distanza o a scappare, la fuga da lui era sempre interrotta da un brusco agguato. Don Michele diventava sempre più audace, pareva non temere niente e nessuno. Di solito agiva verso l'orario di uscita: le faceva la posta dietro gli angoli dei corridoi del liceo, l'aspettava nascosto nel bagno delle ragazze, l'attendeva negli spogliatoi della palestra. Attento a non farsi scoprire da altri, o forse godendo della complicità di qualcuno, il prete usava ogni tipo di stratagemma per attirarla in luoghi appartati. La faceva chiamare da una ragazza di un'altra sezione, le inviava un messaggio firmato da altri e altre scuse in cui Flora spesso cadeva nonostante l'attenzione prestata.
E quando l'uomo la agguantava, mettendole una mano sulla bocca e trascinandola indietro, al riparo da occhi indiscreti, le faceva sentire sotto l'orecchio la punta della sua personalissima arma: il crocifisso acuminato rosso sangue. In quei frangenti Flora sentiva pulsare la giugulare e il terrore di sentirsi bucare la pelle le faceva perdere ogni volontà di ribellione.
Non appena lei smetteva di divincolarsi, vedendola più ammansita, l'uomo cominciava a parlarle col suo tono di voce suadente. Sembrava un incantatore di serpenti. Diceva che lo faceva per lei. Che era preoccupato per il suo comportamento sempre più incontrollabile. Sussurrava che doveva educarla a ubbidire. Che, nonostante i suoi sforzi, Flora non dimostrava miglioramenti. Così la convinceva a seguirlo nel suo studio al quarto piano senza più opporre resistenza. Solo per il suo bene, egli era il suo educatore personale, la guida spirituale di una piccola strega disubbidiente. E ogni volta la punizione per la fuga tentata diventava sempre più feroce.
Mani legate dietro la schiena, la giovane accettava senza dire una parola qualsiasi cosa avesse in mente di farle o di farsi fare. Dopo ogni contatto fisico o amplesso, a cui Flora si sottoponeva senza provare il minimo piacere, l'incontro terminava con una punizione esemplare. Purché tutto finisse il più presto possibile. Purché quell'incubo durasse lo spazio di un urlo di terrore. Uno schiaffo, un pugno allo stomaco, un taglio: erano tutti strumenti usati per educare la strega che era in lei. Il crocifisso acuminato infieriva sulla carne della ragazza in un crescendo di violenza. In caso di fuga definitiva aveva promesso di sfregiarla e questo le faceva davvero paura.


- Flora! Flora! Mi rispondi o no? - grida Nadia, seduta a gambe incrociate sulla chaise lounge mentre la fissa con le braccia conserte e aria severa. Flora si accorge di non aver più prestato attenzione.
- Scusa - si giustifica - mi è venuta in mente una cosa che più tardi devo assolutamente fare. Ma torniamo a noi. Dov'ero rimasta?
- Alle due gravidanze e al prete Arrigone che non aveva morale. - suggerisce Nadia un po' imbronciata.
- Ah, sì. Ma ora non è il momento delle gravidanze, concentriamoci sul parroco.
- Come vuoi tu, Flora.
- Nonostante una vita tanto bassa e torbida, interrogato durante il processo, il prete Arrigone negò tutto, mostrandosi oltretutto sbalordito e sdegnato per i capi d’accusa che gli furono imputati, giungendo anche a giurare e spergiurare più volte, fino a osare di chiamare Dio a testimonianza della sua innocenza e rettitudine, nel tentativo di essere creduto.
- Che cosa disse a sua discolpa?
- Sentenziò: "Dio mi faccia morire adesso adesso se io so cosa alcuna delle sodette", riferendosi ai vari regali inviati da Gian Paolo a suor Virginia.
- Vari regali?
- Svariati oggetti, ovvero: un paio di guanti, il crocifisso d’argento, la calamita bianca battezzata e il "Graffio".
Flora evidenzia in giallo questi quattro oggetti. Non solo il crocifisso attira la sua attenzione: suor Virginia, durante il loro incontro nel chiostro, fece cenno per la prima volta alla calamita.
La ricercatrice prosegue nella lettura degli atti processuali: - "E chiamo Iddio in testimonio. Dirò solo quello che so del libro, et è che andando in casa dell’Osio leggievo qualche volta un libro de casi di conscientia che stava sopra la tavola e non trovandolo una volta dimandai all’Osio detto libro da leggere, et lui disse io non l’ho in casa e non è tanto lontano che non lo possi havere quando lo voglio, e per aver detto che non era lontano m’imaginai che l’havesse dato nel monastero nelle mani di detta suor Virginia e così penso e m’imagino"
- Sta parlando del "Graffio", giusto?
- Sì. Purtroppo non sono ancora riuscita a scoprire altro su questo libro.
- E invece cos'è questa calamita? - domanda Nadia.
- Ne parla poco oltre. Leggo: "Io nego questo perché non è vero" disse "io non ho cognitione de calamita. Intendo che la calamita ha forza di tirare il ferro a sé. Io non ho mai havuto in mano calamita, e Dio mi guardi di battezar calamita, non ho mai più sentito dire queste cose se non da vostra signoria e mi stupisco a sentir queste cose."
- Il prete negò anche questo.
- Sì, - prosegue Flora - e non desistette anche dopo essere stato ammonito più volte a dire la verità. Eppure la sua deposizione non risultava credibile: sia le monache implicate, sia altre persone interrogate testimoniarono che lui giocò una parte fondamentale nella relazione tra Gian Paolo e suor Virginia. Pur di scagionarsi, però, accusò tutti gli altri.
- Chi incolpò? Virginia o Gian Paolo?
- Soprattutto la monaca. La sua strategia difensiva si basò sulla bassa morale della Signora di Monza. Riferendosi a suor Virginia disse: "Da una falsissima donna non si deve credere cosa alcuna né da altre falsissime monache che erano tutte cose falsissime inventate da loro e protesto che non ho fallato in questo, e dette monache hanno detto maggior bugie con giuramento peggiori che non sia questa. Io dico che ho detto la verità et li detti testimonii dicono la bugia loro per le ragioni dette di sopra, et se le monache non hanno stimato la conscientia nelle cose male fatte così anco non l’hanno stimata in questo e non hanno havuto conscientia per il passato quando hanno acconsentito al male e se l’hanno detto in quel ponto come vostra signoria dice è perché havevano così accomodato lo stomaco."
- Che uomo vendicativo!
- Credo che avesse paura di una condanna a morte. Secondo gli atti del processo, aggiunse: "Vorrei che Iddio facesse miracolo adesso se queste cose son vere, so ben io che mi volevano trovar delle polsie adosso, e me n’accorgevo che me le volevano trovare adosso et questa è una collusione fatta contro di me per vendicarsi."
- In effetti sono parole di un uomo vile, ma che sa di rischiare la pelle. La tortura era dietro l'angolo.
- Proprio così. Infatti disse altro pur di discolparsi.
- Accusò anche le suore che fecero il suo nome?
- Sì. Paolo Arrigone accusò pesantemente le amiche di suor Virginia. Era così interiormente corrotto che non si arrese anche quando gli fecero notare che tra le suore interrogate due erano in pericolo di morte, e che non era umanamente pensabile che avessero voluto gravarsi la coscienza deponendo il falso sotto giuramento.
- Timoroso della punizione sì, ma che carogna! Cosa disse, Flora?
- Leggo ancora: "Io so che intesi, che le compagne di suor Virginia Maria dicevano alla medesima suor Virginia che non si dubitasse che mai dicessero parola contro di lei e siccome loro non volevano far stima della conscienza con negar il vero, così habbino voluto gravar la conscientia con dir queste cose contro di me, et se una non ha havuto conscientia in vita non l’ha neanco havuta in articolo di morte havendo detto la bugia a dir queste cose contro di me."
- Pesante. Di certo aveva più timore del giudizio terreno che di quello divino.
Flora annuisce.
- Ovviamente negò ogni accusa anche riguardo alla sua relazione con suor Candida. Non solo, riferendosi a lei, disse: "Conosco l’organista credo si chiami suor Candida", lasciando intendere che la conoscesse appena, solo di nome, quasi per sentito dire.
- Astuto...
- Pur di scagionarsi da ogni accusa e sospetto non esitò comunque a cercare di diffamarla, mettendola in cattiva luce e facendola passare per una monaca leggera e corrotta.
- Il suo fine era chiaro! - interruppe ancora Nadia - Era quello di screditarla per poter mettere in dubbio la credibilità della testimonianza di lei e vanificare così le accuse fatte da suor Candida nei suoi confronti. Molto sottile.
Flora annuisce nuovamente.
- Arrigone affermò infatti che l’Osio una volta l’informò che "Rainerio, il farmacista che forniva il monastero, fingeva d’andar al monastero a portarli qualche cosa della bottega… et ivi faceva de gl’atti brutti, et un’altra volta mi disse che era con una suor Candida organista e che egli ne diede avviso, di queste chiacchiere che diffamavano il monastero all’interessata la quale, a suo dire, gli scrisse per averne delucidazioni".
- Che c'entra nella vicenda il povero farmacista?
- C'entra, ma ti spiego dopo perché. Concentriamoci sul prete...
- D'accordo.
- Dicevo, il parroco, dopo aver testimoniato che, solo in seguito a una precisa richiesta della monaca stessa, diede “risposta in scritto alla detta suor Candida”, precisò che fu sempre e solo su invito di lei che andò "a parlare a detta suor Candida nel parlatorio di fuori del monastero e fu un giorno circa l’hora dell’Ave Maria". Incredibile, no?
- Qual era la sua tattica?
- La precisione dei dettagli forniti. Riguardo all'incontro con suor Candida, specificò che: "Mi ci sarò trattenuto un quarto, od una mezza hora o una cosa simile. La seconda volta che andai al detto parlatorio sarà stata la medesima hora… parlassimo del fatto del sodetto Rainerio non nominandolo… la prima volta ragionassimo poi d’altre cose che sentivo a dire di suor Virginia Maria et la seconda volta pure ragionassimo all’istesso con consolarla e dirle che non si caviasse fastidio perché non credevo cosa alcuna."
- Tanti particolari per essere considerato attendibile...
- Proprio così, mia cara Nadia. Quando, procedendo l’interrogatorio, gli fu comunicato che, stando alla deposizione di suor Candida, durante i loro colloqui amorosi si sarebbero però tenuti per mano, il prete esclamò: "Come vuole vostra signoria che si faccia a toccare la mano a detta suor Candida, non sono andato là con talle intentione… non l’ho fatto e non è cosa da farsi, e non credo che si possi fare ancorché si volesse perché vi sono le ferrate. Dico che non è la verità e dichino quello che vogliano loro."
- Le ferrate? Cosa sono?
- Sarebbero le grate che dividevano le monache dal resto del mondo. Ricordati che era un monastero di clausura.... almeno in teoria - aggiunge Flora con un sorriso malizioso.
- Già, perché ogni cancello ha una chiave... - Nadia strizza l'occhio all'amica.
Poi aggiunge: - Alla fine la fece franca?
- Nonostante l'impegno, le imputazioni a suo carico erano tali e tante, e le testimonianze a suo sfavore erano tutte talmente concordi... che il prete fu accusato non solo di aver mentito, ma di aver anche commesso atti osceni con suor Candida.
- Evvai! - grida Nadia battendo le mani contenta, come una bambina felice per aver aperto un regalo.
- A questo punto il parroco - prosegue Flora - contorcendosi il capo e iniziando a giurare e spergiurare, rispose: "Giesus Giesus, adesso m’accorgo che m’hanno messo adosso et accordatesi così facendo la collusione e l’hanno pensata. Giesus Giesus. Suor Candida dice una gran bugia e Dio la castigherà e mi meraviglio che dichino queste parole e bisogna che habbino pratica cattiva sapendo simili malizie."
Quindi non confessò?
- Assolutamente no! Da lui il Vicario criminale non ottenne la minima ammissione di colpevolezza.
- Caparbio!
- Anche alla lettura della sentenza che lo riconobbe colpevole e lo condannò a tre anni come membro della ciurma sulle triremi, non diede il benché minimo segno di pentimento. Mantenne sempre l'atteggiamento di vittima ingiustamente accusata.
- Lo mandarono a remare?
- Sì, fu condannato alla "galera", appunto.
- Ben gli stà... - Nadia è davvero entusiasta.
- Arrigone disse: "Io non accetto niente di questa sentenza come ingiusta et iniqua, anzi me n’appello al Papa perché mi trovo aggravatissimo di questo stando che io so esser in conscientia sicuro di non haver comesso tali delitti, ma esser tutte imposture fabbricatemi da nemici e come già n’appare per il processo difensivo".
- Remare per tre anni non doveva essere una bazzecola!
- Era una condanna spesso senza via di scampo. In pochi sopravvivevano alla durezza della vita in barca, incatenati come uno schiavo.
- In fondo a certa gente la giustizia terrena non serve. Varrà quella divina, almeno per chi ci crede.


Flora tace e pensa. Della terribile vicenda col "suo" prete non emerse nulla, nonostante qualche pallido tentativo. A lui non toccò il carcere, come invece avrebbe meritato. Non fu neppure allontanato dal liceo, dov'era quotidianamente a stretto contatto con decine di minorenni. A Flora adolescente, ormai troppo cresciuta di testa in un corpo ancora da ragazzina, per anni ebbe il desiderio di vederlo stuprato con violenza estrema da sette-otto carcerieri inferociti dopo aver saputo l'infamia delle sue nefandezze.
Quando, spinta dal suo primo amore, Flora decise di raccontare al preside quanto successo, inizialmente non fu creduta. Ma l'appoggio morale si nutriva della forza dell'amore incondizionato del ragazzo, così lei tornò alla carica in una seconda udienza, passando da un tono informativo a uno ben più colorito e denso di particolari. Allora il preside capì. Era anch'egli un sacerdote e colse nelle parole di Flora la sincerità della disperazione. Rimase qualche minuto raccolto in silenzio di pensieri rumorosi. Poi si schiarì la voce e le chiese di tacere, di non raccontare l'accaduto ad alcuno, finché la cosa non si fosse chiarita internamente, sentendo anche la versione dell'accusato. L'importante era che nulla trapelasse dalle mura della scuola. Ai genitori adottivi Flora raccontò solamente di avere problemi con quell'uomo perché era un pessimo insegnante di greco.
Dopo qualche tempo la ragazza fu convocata nell'ufficio di presidenza. L'uomo le disse di aver ottenuto i dovuti chiarimenti e che era certo che fosse lei ad aver frainteso. Si disse certo che Flora avesse male interpretato le attenzioni di uno stimato professore. Non solo: puntò il dito contro Flora, accusandola di ingratitudine per non aver compreso la fortuna di avere un insegnante così attento. Giustificò le cicatrici che le segnavano le braccia e la mano sinistra come "autolesionismo": molto probabilmente se le era provocate da sola, senza ricordarne la causa. Ipotizzò così che Flora facesse uso di sostanze stupefacenti. Concluse quindi che sarebbe stato saggio per lei cambiare scuola.
Flora non ingoiò alcun rospo e mostrò grande maturità. Gli rispose che sarebbe andata avanti e avrebbe fatto andare dietro le sbarre quel porco e tutti i suoi complici, lui incluso. Il preside sbiancò e Flora uscì dalla presidenza sbattendo la porta.
Allora qualcosa cambiò. Qualche giorno dopo fu convocata da un alto prelato di Monza. Ormai conscia del tentativo comune di insabbiare la cosa facendo passare lei per colpevole, senza alcun pudore gli narrò tutti i particolari, scoprendo che prendeva gusto a vedergli avvampare il viso dall'imbarazzo - o forse dall'eccitazione? - per la sua totale schiettezza.
Il sacerdote ammutolì, sprofondato in riflessioni. Quando aprì la bocca per parlare, commentò che, qualsiasi cosa fosse successo, Flora doveva certamente avere le sue gravi colpe, visto la totale mancanza di pudicizia che mostrava nel narrare l'inerrabile. Aggiunse che era lei a doversi vergognare. Sicuramente aveva tentato quel pover uomo, lacerato tra la fede e la carne.
Poi le prese una mano bonariamente e facendole intuire la volontà di perdonarla, le spiegò con magnanimità che i clamori suscitati da una simile vicenda resa pubblica avrebbero sicuramente danneggiato più lei di chiunque altro. In fondo il buon nome della scuola sarebbe rimasto inalterato, al limite avrebbero potuto trasferire altrove il prete, semmai fosse stato giudicato colpevole di qualcosa da una commissione interna alla Chiesa.
Concluse tendendole compassionevolmente la mano e dicendo che i preti sono uomini, alcuni cadono in tentazione. Ma se dimostrano sincero pentimento, Dio li ama come il figliol prodigo!
A Flora non interessava l'amore di Dio per lui. Voleva giustizia terrena. Le fiamme dell'inferno voleva fargliele assaggiare in vita, senza attendere il giudizio divino. Aveva una rabbia dentro da spaccare il mondo in due ma era solo una ragazzina e lottava contro uomini di potere ben più navigati di lei. Convinse Giada e Maurizio a cambiarle scuola e mandarla al Liceo classico Giovanni Berchet di Milano.
L'ingresso nel nuovo liceo non bastò a farle dimenticare e neppure l'amore del suo ragazzo riuscì a proteggerla da se stessa e dai suoi ricordi terribili. A volte capitava che i sensi di colpa le serrassero la gola. Incubi notturni, problemi a relazionarsi con gli altri, instabilità emotiva: Flora per anni rischiò il collasso psicologico. Finì il liceo pur tentando due volte il suicidio: una volta tagliandosi le vene del polso maldestramente e procurandosi solo una ferita superficiale, un'altra bevendo metà della boccetta di sonnifero rubata dal cassetto del comodino del padre tutore. La bevve la sera, credendo di andare a dormire per sempre. Invece si svegliò la mattina seguente. Vedeva tutto annebbiato e aveva i sensi rallentati, come se un burattinaio invisibile manovrasse dei fili cui erano legati braccia, gambe, testa e persino il busto. Barcollava, tutto le appariva offuscato e i suoni le giungevano ovattati, come se una nebbia densa avesse avvolto ogni cosa. Era lunedì e andò a scuola anche se faticava a camminare dritto. Sostenne un'interrogazione di storia dell'arte di cui non capiva nemmeno le domande. I suoi nuovi compagni risero di lei: pensavano che fosse sotto l'effetto di stupefacenti. La professoressa la rimandò a posto assegnandole un quattro rivedibile non appena si fosse ripresa. La fortuna di Flora fu che a scuola in media otteneva voti alti e non poterono sbatterla fuori né quella volta, né in seguito ad altre bravate.
Diversa da tutte per le sue esperienze e incurante dei pericoli, volle portare la sua vita ai limiti. Non fece uso di droghe forse solo perché nessuno gliele propose, ma iniziò a praticare attività sportive sempre più pericolose, in parte ricordando vagamente le sensazioni di antichi voli notturni. Fu poi l'amore la sua redenzione e la salvezza.

martedì 15 giugno 2010

Osio e Ludovico

Milano, Anno Domini 1610

Il senatore conte Ludovico Taverna cammina nervosamente avanti e indietro trascinando i piedi sul tappeto francese che copre l'elegante pavimento di cotto del salone centrale della sua villa di Milano. È l'alba di un giorno decisivo per lui: agire secondo coscienza, tendendo la mano all'amico d'un tempo, seppur macchiatosi di crimini e nefandezze estreme, oppure agire da uomo politico retto e rispettato, avvertendo le autorità di quella odiosa presenza in casa sua, per assicurarla alla giustizia che lo ha già condannato a morte.
Il viso rosso di rabbia, una mano appoggiata al panciotto nero, i suoi passi nemmeno si sentono, attutiti dal fruscio del mantello di velluto scuro appoggiato su una spalla, che ricade a terra disegnando onde ad ogni passo. Il nobil'uomo non si dà pace che quell'ospite inatteso abbia scelto proprio la sua villa di delizie per cercare rifugio.
- E non la dimora di Triuggio, quella in cui solevamo incontrarci e fare bisboccia bevendo vino e assaporando cacciagione fresca. Bensì questa di Milano, ove gli occhi di tutti son puntati in attesa che io stesso cada in fallo.
Si ferma un attimo e guarda dalla vetrata la corte d'onore che si apre magnifica verso la strada maestra.
- Quanto vorrei allontanarmi e fuggire da qui, togliermi d'impiccio... magari correre nel mio palazzo che sorge accanto a la residenza che fu dei Marino... avrei modo così di prender tempo e pensare. Forse ho isbagliato a non voler consegnare Gio Paolo Osio dritto dritto nelle mani dello Tribunale criminale de la Curia Regia. Ormai è fatta: tra poco lo porteranno allo mio cospetto e dovrò decider che farne.
Bussano alla grande porta di legno intarsiato. Ludovico Taverna sobbalza: le mani gli sudano ma deve darsi un contegno immediato. Lui è il senatore, il conte, non un villano qualunque.
- Entrate! - ordina con tono imperioso.
Si aprono entrambe le ante di legno abbastanza ampie da consentire l'ingresso contemporaneo delle due guardie che trascinano dietro di loro un uomo in catene.
- Eccolo, Signore. - risponde la guardia più alta spingendo avanti a sé Osio che barcolla, ma riesce tenacemente a mantenersi ritto in piedi.
Taverna sgrana gli occhi incredulo. Possibile che quell'uomo così malridotto sia Gio Paolo? "Smagrito, emaciato, vestito di stracci lerci e puzzolenti, sembra il peggior dei pulciosi che si possano raccattare per strada all'angolo a chiedere la questua" pensa.
- Che gli avete fatto senza un mio ordine preciso? - domanda severo il conte notando la ferita alla testa e la camicia imbrattata di sangue.
- Nulla, Signore! - si affrettano a rispondere i due uomini.
- L'abbiam solo messo ai ceppi ma senza percuoterlo mai. Le ferite se l'è fatte da sé e lo sangue è anche lo sputo dalla bocca perché è tisico...
- Basta! Tacete! - interrompe Taverna impressionato dallo stato dell'antico amico ora al suo cospetto, - Via! Andate e lasciateci soli. Ma non distanziatevi troppo, voglio che restiate subitamente fuori dalla porta, che se succedesse qualche cosa voi possiate subito accorrere al mio servizio!
Le guardie si inchinano ed escono, chiudendo rumorosamente la doppia porta alle loro spalle.
- Che volete che vi faccia? Incatenato così come uno schiavo negro dei Portoghesi... - commenta sarcastico Osio - potrei solo tossire sì forte da passar lo maleficio della mia malattia mortale al vostro petto sano, riccamente agghindato...
Ludovico tace osservando Gio Paolo, ritto in piedi a tre metri da lui, coi polsi incatenati dietro la schiena, scarmigliato, pallido. "Non è neppure l'ombra del bell'uomo che rammentavo".
- Non mi riconoscete più, Ludovico? - chiede a un tratto Gian Paolo piantandogli in faccia quegli occhi fieri da animale in cattività sempre pronto ad azzannare alla gola.
- Vi riconosco Gio Paolo, vi riconosco. Non credevo aveste l'ardire di venire qui, nella mia dimora, a cercar asilo con la pena capitale sulla testa!
- L'ho fatto nel nome di quell'antica amicizia fraterna che ci lega! Ludovico! Come fate ora a fingere tanto distacco?
- Li tempi son cambiati! Lo boia bussa alla porta. Non capite in che posizione grave mi avete messo venendo in codesta villa? Siete sempre stato un impetuoso incurante de la legge!
- Ma voi siete senatore, vi si stima e potreste mettere una buona parola per me col Fuentes, quel lurido cane schifoso che ammazzerei se solo potessi avvicinarmi a lui...
- Gio Paolo, che dite! Son senatore sì, e anche ricco conte, ma non ho potere di cancellare la legge! Hai osato troppo questa volta! Due monache ammazzate, la Signora di Monza condannata a una vita di prigionia... e tutto per causa vostra! Vergogna! Fuentes ha fatto solo il dover suo...
- Il mio fu solo per disperato amore... e solo per disperato amore sono tornato rischiando la pelle...
- Amore per cosa? Voi? - scoppia a ridere - Chi mai avete amato se non tutte le sottane che vi son capitate a tiro? Chi mai avete amato se non i denari vinti ai dadi o le bravate a cavallo con l'archibugio sotto braccio a sparar a quaglie o ai cristiani? Chi mai avete amato se non voi stesso e li mille vostri divertimenti?
- Due donne ho amato e amo ancor oggi per l'eternità.
- Due donne? Chi sono esse?
- Marianna e Alma Maria. Madre e figlia, signora del mio cuore l'una, anima della mia vita l'altra. Sol per loro io vivo questi ultimi giorni da prigioniero infame. Sol per loro son tornato in Milano dopo aver vissuto da cane braccato.
- Siete rimasto sempre nel ducato?
- No, fuggiasco sì, pazzo no.
- Essendo ormai in salvo oltre confine, era nel vostro completo interesse serbare l’anonimato e il silenzio più assoluti, onde farvi dimenticare da tutti e poter, così, sperare di salvarvi la pelle. Dato che, sulla vostra testa, oltre che una condanna a morte, pende la favolosa taglia di 1000 scudi, la quale avrebbe potuto “ingolosire” molti, inducendoli a mettersi sulle vostre tracce.
- Anche a voi ingolosisce?
- Giammai! Che nessuno osi dire che il conte Taverna sia mosso da pecunia...
- Ho dovuto tornare in Milano.
- Perché? Ella è ormai condannata. Non v'è più possibilità di liberarla ormai.
- Mi sono arrischiato pur di tentar di alleggerire la gravità delle imputazioni gravanti su suor Virginia. Scrissi anche una missiva, perché li miei sentimenti son sinceri.
- Dov'eravate fuggiasco?
- Come i miei bravi colpiti da simili sentenze andai oltre l’Adda, fuori dalla giurisdizione del Ducato milanese.
- Quando siete rientrato? Il vostro nome da due anni figura ancora tra i ricercati.
- Ludovico, non chiedetemi altro. Ve lo domando in nome di un sentimento d'amicizia che credo non sia svanito ma affievolito dalli fatti contingenti. Aiutate questo uomo... aiutatemi a parlar con chi di dovere...
- Osio siete pazzo sì! Con chi vorreste dialogare?
- Con chi ha ingiustamente imprigionato Marianna!
- Ingiustamente! Che dite? Una monaca e non una qualunque, per giunta feudataria, la badessa dello convento di Monza che fu complice di omicidi, che uccise infanti innocenti...
- Nessun assassinio di infanti! Lo primo nacque morto e la seconda è viva e vegeta!
- Non è questo che disse il giudice e tutti li testimoni! Voi fuggiste, lasciaste Monza e al processo la monaca fu sola, da tutti accusata. Ella è colpevole del più ripugnante delli delitti! Ammazzare la propria creatura appena venuta alla luce... e voi! Voi! Osio, non posso portarvi da nessuno! Sarei lo complice vostro...
- No Ludovico, portatemi dal giudice! Potrò raccontar la verità, spiegherò che io solo son lo colpevole, solo io ammazzai le monache per paura che rivelassero li segreti... ella, la mia Marianna, non ha colpa alcuna se non quella di esser caduta nel mio inganno amoroso... ella merita di viver serena nello convento suo. Io poi andrò a morire come il Fuentes vorrà, son pronto. Ma aiutatami a salvar il corpo terreno e l'anima della mia Signora di Monza.

venerdì 14 maggio 2010

Sogno o realtà?

Aver riascoltato al telefono la voce cristallina di Dora è stato un toccasana per Flora. Nabe l'aveva più volte rassicurata sulla salute della bambina beatamente addormentata, ma alla mamma non poteva bastare quell'apparenza. Aveva chiesto alla baby sitter di svegliarla dal sonnellino pomeridiano e poter sentire le paroline della bambina. Come un viandante perduto nel deserto, Flora aveva assaporato ogni suono emesso dalla bocca infantile come se fossero gocce sorgive sgorgate in un'oasi.
Solo adesso riesce a placare la terribile ansia che l'ha tenuta in pugno come un esercito che assedia una città medievale ormai senza più cibo né acqua. Nell'istante stesso in cui ha visto la carta che svela l'arcano mutarsi nella raffigurazione di sua figlia, Flora ha pensato davvero che il suo cuore avrebbe ceduto di schianto.
"Magia o realtà? Sortilegio o autosuggestione? Vinicio Amaranto è un abile stregone o solo un ex psichiatra esperto di tecniche ipnotiche?" Impossibile rispondere adesso: è intontita e l'ennesima giornata afosa acuisce gli effetti della febbre che a tratti le scalda il ventre come se avesse un fuoco acceso o le inonda di brividi la schiena come se fosse irrorata da un getto d'acqua gelida.
Seduta sul divano avvolta in una coperta leggera che a tratti allontana da sé per poi correre e rimboccarla fin sotto al mento, ode i rumori provenienti dal tecnologico angolo cottura dove Nadia sta preparando una tisana ristoratrice. Il suo desiderio principale sarebbe quello di precipitarsi a casa dalla bambina per abbracciarla forte. Il senso di colpa di essere altrove invece che accanto alla propria creatura è prepotente. Ma deve prevalere la ragione: Dora sta bene ed è in mani sicure con Nabe. Flora deve quindi prima dedicarsi a un'altra priorità: le resta tempo sufficiente per riallacciare i fili di quanto accaduto e pensare a come recuperare il prezioso taccuino rosso.
- Quel bastardo di Amaranto ha messo in piedi un'illusione ottica o ha architettato chissà quale altro dannato trucco per disorientarmi e sottrarmi gli appunti.
- Perché, che cosa cerca? - le domanda l'amica mentre fischia il bollitore sulla piastra incandescente.
- Non lo so. Però tutto questo significa che lo scopo della ricerca va ben oltre la comprensione della vera natura del rapporto amoroso tra Gian Paolo Osio e Marianna De' Leyva.
- In che senso?
- Il committente, la cui identità mi è stata volutamente tenuta nascosta, ha in mente di scoprire un segreto rimasto tale per secoli. E forse Amaranto si è ingolosito di qualcosa e vuole trovarlo per primo.
- Non capisco Flora, che vuoi dire?
- I casi sono due: o il committente gli ha promesso di ricoprirlo d'oro se Amaranto gli consegna quel qualcosa e adesso l'antiquario teme che io possa arrivare allo scopo scavalcandolo per intascarmi il generoso compenso... oppure l'albino ha intuito che quel qualcosa è talmente prezioso da voler metterci gli artigli sopra tagliando fuori il misterioso uomo. In ogni caso io sono il terzo incomodo.
Flora si asciuga il sudore dalla fronte con un lembo della coperta e un attimo dopo il freddo è tale da convincerla a raggomitolarsi sul divano come un gattino che cerca il tepore sul cofano di un'auto parcheggiata.
- Ma che cosa può essere così allettante da spingere un uomo a investire tanto denaro per portarlo a galla? Un tesoro nascosto? Un'eredità andata perduta? O un segreto di tale portata che possa cambiare il corso della storia?
Arriva Nadia con andatura morbida. Regge un vassoio balinese con due grandi tazze di terracotta nera giapponese. La teiera scura fuma. La mora, sfoderando il suo bel sorriso, versa l'infuso nei recipienti.


*****


Quella mattina, dopo aver visto l'immagine di Dora incredibilmente rappresentata nell'ultimo tarocco voltato sul tavolo di cristallo dall'albino, Flora era riuscita finalmente a riprendere il controllo del proprio corpo. Spinta dalla forza di volontà di assicurarsi della salute di sua figlia, per afferrare la decima carta aveva sollevato le braccia, che penzolavano lungo il corpo e sembravano pesare decine e decine di chili.
Era bastato questo movimento spinto da una straordinaria forza di volontà a fare in modo che, come d'incanto, tutte le raffigurazioni dei Tarocchi scomparissero. Niente più monache o preti, visioni sanguinolente e castelli medievali: tutte le lame erano completamente bianche. Ciascuna raffigurazione era svanita e ne restava solo il ricordo vivo nella memoria sconvolta della donna.
Flora aveva distolto lo sguardo e puntato dritto verso l'albino, immerso nella quasi totale tenebra. Solo in quel momento l'illuminazione nella stanza era tornata normale, come se qualcuno avesse improvvisamente acceso la luce del sole che riprendeva a filtrare violenta dalle coltri grigie dell'ampia finestra.
Dopo il bagliore, Flora si era ritrovata sdraiata sul lettino di pelle nera da psicanalista. Le gambe distese, le mani giunte all'altezza del pube.
Gli occhi da coniglio di Vinicio Amaranto la guardavano tranquilli e un timido sorriso era dipinto sulla sua bocca carnosa. I capelli bianchi erano ben pettinati e la pelle grinzosa formava tante piegoline attorno agli occhi. Delle sembianze di giovane stregone non v'era più alcuna traccia. Lo sgomento di Flora lasciò posto per qualche minuto a una grande incredulità. Faticava a capire dove finisse la realtà e dove iniziasse l'illusione. Aveva sognato prima, durante la lettura dei Tarocchi, o il sogno stava cominciando in quel preciso istante?
- Cos'è successo? - chiese Flora mentre si sentiva assalita dal mal di testa, come se fosse caduta nuovamente urtando con violenza contro il pavimento.
- Ti ho ipnotizzata, Flora Leth. - l'ex psichiatra le prese con dolcezza una mano, stringendola.
- Mi hai parlato a lungo di te, mia cara e ora ti sentirai più tranquilla. - disse, mentre un sorriso malizioso si allargava mostrando i denti ingrigiti dal tabacco.
Flora sentì avvamparsi le guance mentre i succhi gastrici le ribollivano nello stomaco. "Probabilmente adesso Amaranto è al corrente del mio passato e delle vicende scabrose con il prete" pensò. Si sentì pervadere dalla vergogna. Avrebbe voluto scappare via come se fosse tornata ragazzina. "Aveva bisogno di carpirmi qualche segreto per potermi ricattare moralmente e avermi in pugno".
Flora si issò fino a sedersi e notò l'abitino di seta blu abbottonato male. Le asole non combaciavano e un occhiello era senza bottone. "Possibile che sia uscita di casa per un appuntamento di lavoro vestita in maniera così trasandata?" pensò.
Intanto il tarlo del dubbio scavava tra le sue sinapsi. Mentre era ipnotizzata Amaranto poteva averle chiesto quale fosse il ricordo più brutto della sua vita e lei sicuramente ne aveva tanti, tutti legati alla stessa terribile, lunga esperienza con il prete dei suoi incubi. Così ora lui aveva una potente arma da usare contro di lei. "Ma con quale scopo?" si domandò.
Oppure l'albino mentiva; non l'aveva affatto ipnotizzata e davvero lei aveva visto mutare le immagini dei Tarocchi. In quel caso, il collezionista era davvero un potente stregone, riuscito a carpire i suoi segreti, di questa e di altre vite. E non solo quelli appartenenti al suo passato, ma anche agli avvenimenti futuri. "Forse il divinatore è talmente abile da riuscire a cancellare ogni prova della lettura delle carte dandomi l'illusione di avermi solamente addormentata per qualche minuto, con la tecnica usata da Freud e perfezionata da Jung e i suoi seguaci".
Senza parlare Amaranto l'aiutò a scendere dal lettino di pelle e rimase in piedi.
Flora era ancora frastornata ma decisa a uscire dallo studio il più presto possibile in silenzio. Quando si chinò a raccogliere la borsetta ancora abbandonata sul pavimento, notò qualcosa sotto la scrivania di cristallo. Guardò meglio: era una carta dal dorso rosso e il pentagono dorato. Le si bloccò la salivazione. Sperando di non essere vista, finse di sistemarsi l'allacciatura di un sandalo. Allungò il braccio per afferrarla ma un colpo violento schioccò alle sue spalle, come se l'estremità di una frusta di cuoio avesse battuto con violenza contro al pavimento.
Flora ritirò la mano vuota e si alzò di scatto in piedi, voltandosi. A pochi centimetri da lei riconobbe la figura alta di don Angelo Scaraffi, che la scrutava con desiderio.
Era precipitata indietro nel tempo e ora si trovava nello studio al quarto piano del liceo e aveva quindici anni.


*****

Gli occhi di Flora adolescente fissavano le lastre di marmo regolari tirate a lucido come specchi. Si vedeva riflessa: i capelli sciolti lungo le spalle, il grembiule blu, le mani giunte. A capo chino, era inginocchiata di fronte al prete, in attesa che l'uomo le ordinasse una nuova nefandezza. Sentì la calda mano, col palmo aperto, appoggiarsi sulla sua nuca. La ragazza pensò che la volesse accarezzare o forse colpire, invece la tirò a sé, lentamente. Flora non osò guardare e strinse gli occhi con forza. Di certo non voleva guardare quel suo membro vermiglio che si stagliava vistosamente sulla veste nera.
Qualcosa batté contro le sue labbra. "Mi sta baciando?" pensò in un lampo. Flora ritrasse la testa d'istinto e aprì gli occhi. Si ritrovò quasi a contatto col membro eretto dell'uomo; poteva quasi sentirne il calore. Cercò di ritrarsi in fretta alzandosi in piedi, ma la mano dell'uomo prontamente l'arrestò, rimettendola con forza in ginocchio.
Poi le parlò con tono duro: - Non scappare, bambina mia. Ora ti mostrerò la punizione che ti infliggerò dopo ogni confessione in cui mi racconterai tutte le sconcerie che combini con i ragazzini della tua età.
Flora era impaurita, non sapeva a cosa pensare, era bloccata dalla vergogna. Tacque.
Il prete le cinse la nuca con entrambe le mani. La ragazza capì e cercò di divincolarsi, non voleva avvicinarsi oltre.
Con una forza mai usata prima, l'uomo le diede un violento schiaffo sulla guancia, che le fece voltare la testa dall'altra parte. La gota bruciava e nemmeno le lacrime che scendevano copiose riuscivano a darle sollievo. Tornò a fissare il pavimento come inebetita, accantonando ogni impeto e volontà di scappare.
Con voce greve e molto irritata, egli aggiunse: - Se cerchi un'altra volta di rifiutare un mio insegnamento, bambina sciocca, non esiterò a infliggerti punizioni corporali che ti lasceranno segni indelebili.
Non disse altro. Non fu necessario: Flora accettò passivamente, conscia ormai di essere sulla strada del non ritorno.
L'uomo intrecciò le dita dietro la nuca della giovane. Strinse il suo viso e lentamente l'avvicinò.
Flora serrò gli occhi. Avvertì distintamente l'attimo in cui il culmine del membro urtò nuovamente contro la sua bocca. Strinse le labbra per impedirne l'ingresso. L'uomo serrò le braccia, premendole il viso all'altezza dei condili, obbligandola a dischiudere la bocca. La ragazza percepì il sapore acre della pelle, la superficie liscia e tesa, la forma solida. In testa le rimbombava un ronzio senza fine.
Quando l'uomo ebbe finito, commentò rasserenato: - Piccola strega, questa è la tua punizione. Io comando e tu ubbidisci. Io insegno e tu impari. Io sono il bene e tu sei il male. Ricondurrò la tua anima sporca sulla via maestra verso la luce eterna. E mi sarai grata per l'eternità.
Dopo essersi sistemato l'abito talare, riprese a parlare, lasciando Flora inginocchiata ai suoi piedi.
- Ricorda! Dalla prossima settimana verrai da me a confessarti e mi racconterai tutto quello che fai con i ragazzi. Io soffrirò per te e per lavarti l'anima dovrò infliggerti una punizione severa. Le preghiere non bastano. Attenta però - aggiunse dopo una breve pausa - io leggo negli occhi delle bambine cattive: se menti e scappi, sarò costretto a cogliere il tuo fiore più intimo e la tua anima dannata sarà perduta per sempre. Capisci quanto ti amo, bambina mia?.
Mentre pronunciava queste ultime parole, prese la ragazza da sotto le ascelle, mettendola in piedi come se fosse una bambola di pezza. Con un movimento fulmineo, il prete lasciò scivolare la mano lungo la schiena di Flora, la infilò dentro la cintura dei pantaloni, scese fino agli slip, passò sotto l'elastico e le introdusse repentinamente un dito nell'ano.
- Capito, bambina mia?
Flora tentò di divincolarsi, si girò di scatto per liberarsi dalla presa dell'uomo e afferrò la maniglia della porta. Questa volta doveva assolutamente scappare dallo studio del prete. Il pomolo mutò aspetto mentre lei lo impugnava. Non era più d'ottone, era diventato il dorso della mano orribilmente pallida di Vinicio Amaranto, che la scrutava con serietà. Le unghie di Flora erano ben piantate nella sua carne.
- Flora, sei improvvisamente ricaduta nell'ipnosi. Non mi era mai successo prima con altri pazienti, ma forse non ti avevo svegliato completamente.
La ricercatrice mollò la presa e si guardò le mani. Erano quelle di una donna adulta. Era nuovamente nello studio dell'antiquario e il suo abitino blu adesso aveva ogni bottone al suo posto. Aveva sognato o rivissuto un nuovo flash back faticosamente rintuzzato nella soffitta dei suoi ricordi?
Uscì dallo studio senza proferire parola. Una volta in strada, si allontanò un centinaio di metri, poi prese il telefono cellulare e chiamò immediatamente prima Nabe, poi l'amica Nadia.


*****


Nadia porge a Flora un bicchiere con acqua biancastra che ribolle.
- È un'aspirina. Bevila.
- Ho già preso le pastiglie per abbassare la temperatura. Non voglio esagerare. Dopo tutto in questi giorni continuo a sentirmi male e non capisco se sto impazzendo oppure ho un tumore al cervello. Tornerò dal medico.
- Flora, Flora, - Nadia le accarezza una guancia meno cocente di prima - sei solo sotto stress per tutto questo lavoro. Studi troppo e la testa ogni tanto ti scoppia.
La ricercatrice ingolla la medicina sciolta nell'acqua. Deve pensare a come fare per recuperare il prezioso taccuino con la copertina di pelle rossa. Certamente ora Vinicio Amaranto ha un'arma in più. Merito dell'ipnosi o della magia nera, conosce il suo segreto.
Prima di congedarla, quella mattina le ha sussurrato: - Flora Leth, io sono lì, in ginocchio di fianco a te, mentre prendi in bocca ogni disillusione di affettività legata al corpo e ai piaceri che può dare.